Ascoltando Transiti Terrestri
ET QUID AMABO NISI QUOD AENIGMA EST
Se è lecito risalire alla Grecia, a Volos da dove partirono gli argonauti, ad Atene dai bianchi templi e poi alla Monaco di Bocklin e della sua Isola dei morti, e quindi a Firenze e poi a Torino dove: «…tutto è apparizione. Si sbocca in una piazza e ci si trova di fronte a un uomo di pietra che ci guarda come solo le statue sanno guardare. Talvolta l’orizzonte è chiuso da un muro dietro il quale si leva il fischio di una locomotiva, il rumore di un treno che si mette in marcia: tutta la nostalgia dell’ infinito si rivela a noi dietro la precisione geometrica della piazza» (Paolo Baldacci, De Chirico (1888 – 1919); La metafisica, Leonardo, Milano 1962).
Se ciò è possibile fare per Giorgio De Chirico, per la profonda e inesausta suggestione della classicità, per il trauma dell’infanzia precocemente perduta a causa della morte del padre, per la lunga elaborazione del lutto nelle Piazze d’Italia, per il fortissimo impatto con la melanconia tedesca, da cui nacque il famoso autoritratto in cui il pittore si rappresenta nella celebre posa di Nietzsche con la testa appoggiata sulla mano e l’iscrizione: ET QUID AMABO NISI QUOD AENIGMA EST.
Se tutto ciò è utile per tentare di comprendere meglio gli aspetti fondativi della pittura metafisica, allora per Salvatore Santoddì si può risalire la strada serpentina di Sant’Orsola a Caltagirone fino ad una improvvisa salita. Lì è la sua casa a tre piani che si radica con le fondazioni nella frana medievale che inghiottì la città dei cannatari; che emerge sulla strada nella stanza alla cui porta, da sempre, la nonna ricama e cuce; sale per la stanza sacrario interamente rivestita di corruschi trofei paterni e termina nella veranda luminosa, fragile e aerea come un nido, che guarda di fronte, nella sola direzione possibile: alla città murata tutta bruno e ocra contro l’azzurro del cielo percorso spesso da nuvole, e all’antenna di ferro, bianca e rossa, che, vituperata da ambientalisti e paesaggisti, tuttavia fora il cielo e si affaccia su dimensioni normalmente non percepibili da occhio umano.
L’“Autoritratto” del 2001 mostra infatti già tutti gli elementi di base della sua precoce, attuale ricerca. I soggetti: la figura umana fissata nel momento più pregnante del gesto, le architetture longeve eppure precarie nella perenne trasformazione del tempo e degli uomini, gli alberi, o il frutto o il fiore, che evocano una natura enigmatica, feconda e polimorfa.
Accanto ad essi i motivi che dei primi formano la sapiente orchestrazione, apparendo in angoli diversi a caratterizzare il repertorio di immagini di cui Santoddì si serve: il cielo, così pesante e presente ma nello stesso tempo rarefatto e remoto; l’antenna, o gru, aliena e metafisica presenza sugli uomini e degli uomini; le finestre, drammaticamente cieche o aperte a telescopio su prospettive interne, misteriose e imperscrutabili. Così nel secondo “Autoritratto” del 2002 in cui alla gonfia cupola barocca, babelica e vanamente coronata dalle saturniche impalcature degli uomini, corrisponde l’elementare rotondità della mela gialla che nella sua umile semplicità sembra irridere alla prima e, insieme, alla vanità degli uomini. Mentre la sua stessa ignuda e instabile figura, trattenuta solo dall’immobilità dello sguardo, assume il ruolo di un apparizione panica in un meriggio sospeso e deserto.
Anche in questo caso le pennellate e la materia pittorica sono più attente al primo De Chirico ma soprattutto a Sironi, a Carrà, a cui riporta la pittura compatta, piena, sensualmente morbida e plastica. Ma non minore importanza hanno le sensazioni che Santoddì avverte e trasmette, anche in questo caso dechiricamente, come una sottile e persuasiva rivelazione del quadro «senza che noi vediamo niente, senza che pensiamo niente… il quadro non sarà una riproduzione fedele di ciò che ha determinato la sua rivelazione ma gli somiglierà vagamente come il volto di una persona in sogno somiglia a quella persona nella realtà. E in tutto ciò la tecnica non entra nulla, tutta la sensazione sarà data dalla composizione delle linee nel quadro…».
Le sue sensazioni, le sue atmosfere si costruiscono sul contrasto tra le piene e curvilinee forme dei corpi e la rigidità delle costruzioni, dove le figure umane pur così monumentali ed esposte nella loro fisica nudità, sembrano vivere come ombre accanto alle cose che sopravvivano agli uomini e che si impongono ad essi in una misteriosa epifania, come ne “L’apparizione della torre preziosa” del 2003: ma salvati dalla luce che da epidermica e terrena come nel bell’“Adolescente” del 2001/2002, il più giovane fratello e alterego, diventa tutta interiore e sovraumana, ancore ne “L’Apparizione della torre preziosa”, e, ancor più, in “Fluxus pitagorico” del maggio/luglio 2004. Una luce che si riverbera sui corpi in maniera prepotente attraendo ipersonaggi in un gesto di preghiera e adorazione.
Un portare alla luce, quello di Santoddì – metafora metafisica per eccellenza – una verità incontaminata e pura che lo avvicina all’anelito surrealista ma sempre nella partecipazione empatica e concettuale alla laica considerazione di Giorgio De Chirico: «Sulla terra. Nell’ombra di un uomo che cammina al sole ci sono più enigma che in tutte le religioni passate, presenti e future». [Domenico Amoroso]