Due ma non due
Fiori bianchi e rosa rossa nel giardino mistico
‘costruzioni pittoriche’ di Salvatore Santoddì
Confesso di aver “riscoperto” solo da qualche anno la pittura d’immagine, nelle giovani espressioni artistiche, come un possibile linguaggio innovativo. Il quadro e la pittura, pur avendo conosciuto, negli ultimi decenni, occultamenti e imprevedibili rinascite, possono rappresentare, per l’ultima generazione, un mezzo di espressione “sconfinante”. Hanno la possibilità di divenire, come ho già sottolineato in passato, uno spazio “altro” da attraversare, anche con le tecniche convenzionali e le iconografie più consuete, leggendo nel frattempo i mutamenti sociali e di comunicazione. Il quadro diviene schermo e specchio per “autoritratti” pulsionali e interiori, proiezioni e ibridazioni che ascoltano inquietudini e aspettative, la cronaca: l’atto pittorico diviene “evento che fa accadere” il racconto delle sue realtà, insieme alle alchimie e mistiche “viventi” nell’autore.
La pittura nella sua storia ha sempre guardato, con le sue ‘maschere’ simboliche, talvolta in maniera privilegiata, al campo del sacro, anche quando questo è “travestito” nel profano o nella quotidianità, esprimendo tracce, costruzioni e figure di un passaggio che libera interiori moventi: percorsi con lo sguardo della citazione (storica, autobiografica, visionaria) “trovata” nello stesso svolgersi dell’atto creativo.
L’ultima pittura d’immagine può divenire pratica di mistica, attraverso dialettiche e contaminazioni linguistiche perturbanti: come con la fotografia, la grafica, il fumetto, la scrittura, la gestualità estesa fino alla performance, ecc. Nello stesso tempo “rielabora” (caratteristica presente in diversi pittori dell’area catanese) essenze mitiche e figure irreali (anche nella loro apparente realtà), emergenti come apparenze sulle stesure e costruzioni narrative del quadro. Queste direzioni sono “presenze” nel lavoro e procedimento del giovane artista siciliano Salvatore Santoddì: il “pittore dei transiti terrestri” vuole far coincidere il momento dell’arte con quello del proprio percorso meditativo e di riflessione. La sua poetica “si costruisce” e si amplifica con la dialettica del doppio: “il quadro nel quadro” e ‘il dittico o il trittico variabile”, ma anche con la duplicità delle significazioni che diventano esse stesse ambienti impalpabili.
La costruzione dipinta, più che un genere espressivo, è un’altra possibilità di leggere il linguaggio dell’architettura come narrazione e significazione psico-esistenziale. L’artificio della tecnica pittorica serve per raccontare e segnalare – con le immagini – inquietudini interiori e sociali: come nelle città nuove dei Futuristi, nelle piazze di Giorgio De Chirico o nei profili metropolitani di Arnau Alemany. L’architettura dipinta diviene l’ambiente della nostra esistenza quotidiana e immaginale, insieme ai suoi possibili contatti con l’atmosfera mistica.
“Nei miei lavori, quasi sempre un paesaggio contemporaneo-storico o storicizzato, altre volte è un semplice panorama – fa da sfondo al mistico silenzio di figure umane, spesso in primo piano e autoreferenti, altrettanto spesso figure femminili fluttuanti.” (S. Santoddì)
L’architettura urbana diviene per lui un paesaggio emozionale da presentare sullo sfondo criptico delle tele. Le sue costruzioni diventano moduli: gli elementi costituenti scandiscono la dialettica e il contrasto fra immobilità e movimento, eternità e variabile umano. Le linee ondulate e circolari delle figure (con i loro movimenti) esprimono, nello stesso tempo, un contrasto e una continuità con le geometriche strutture della rappresentazione urbana.
Le antiche e nuove costruzioni in rifacimento, dipinte da Santoddì, sono l’allusione e la maschera di un ricollegarsi all’elevazione sacrale: vocazione presente nelle posture preganti delle immagini o nelle aperture dei fiori e degli sguardi, volendo, come scrive l’artista, esistere in “una dimensione temporale che è eterno presente, cioè un valore di tempo e di spazio assoluti in questo presente.” Le mani, unite in preghiera, si elevano verso la direzione della costruzione urbana per “congiungere”, nel linguaggio pittorico, la contiguità sacra tra presente e passato con l’aspirazione dell’oltre.
L’oltre di queste architetture dell’anima può richiedere la poesia di un fiore alchemico: il pittore crea così la sua rosa rossa, che fiorisce per indicare le sue “accensioni” di erotismo, o i suoi fiori bianchi di sacralità simbolica (da intendere bianchi anche quando non lo sono). Questi fiori vivono nella costruzione interiore e segreta di un giardino mistico: il pittore li guarda sapendo che il loro profumo potrà essere fruito, nel silenzio, solo dentro di noi. Il suo occhio però guarda le loro ‘apparenze’: dietro alle quali può esserci il suo o nostro, più o meno consapevole, “autoritratto”.
“L’occhio, il più spirituale degli organi umani, sembra trapassare e annullare nella sua imperscrutabile profondità il rapporto spazio/tempo, che fin dall’inizio appare come uno degli enigmi più affascinanti e importanti per Salvatore Santoddì.” (D. Amoroso)
Santoddì fissa, con il suo occhio artistico, i frammenti delle varie realtà che diventano la nostra variegata maschera-illusione di lettura. La loro continua trasformazione può essere “appuntata” con le apparenze corporali e metaforiche, “animate” con la natura interna e nella sostanza pittorica. Il senso del lavoro è espresso con l’energia della creazione, attraverso la sensibile ricerca di armonie raccontate nella ‘costruzione’ pittorica. A questa sua mostra personale, che non a caso si svolge a Caltagirone (la sua città), l’artista (e anche il sottoscritto) offre invisibili fiori bianchi e una rosa rossa nel giardino sacro dell’arte: per diversi mistici, l’arte è stata (e continua ad esserlo) una ‘maschera’ per comprendere i fiori e le costruzioni dell’oltre.
Vitaldo Conte (critico d’arte e curatore)